È passata una settimana da quando sono atterrata sul suolo italiano, lasciando quello caldo e polveroso del Marocco. Una settimana in cui cerco di mettere in ordine i pensieri e scorro malinconica le foto dalla galleria per cercare di non dimenticare niente di quello che ho visto; una settimana in cui incontrando i volti delle persone a me care mi è stata posta la fatidica domanda: “Allora com’è andata in Marocco?”; una settimana in cui cerco di trovare la risposta sufficientemente adeguata per spiegare la quantità di emozioni, volti, abbracci e sorrisi che ho vissuto lì, a Meknes, all’orfanotrofio della Fondazione Rita Zniber del quinto piano dell’Ospedale Mohamed V.
Il Marocco è caos e questo io e miei compagni di viaggio lo abbiamo percepito nel momento in cui abbiamo messo piede nella Medina di Meknes e abbiamo cercato di farci strada tra le viette del mercato. Un caos frenetico fatto di suoni, voci, odori e colori che ti travolgono e che ti portano ad apprezzare un pochino di più i momenti di silenzio e calma che si creano al richiamo alla preghiera del Muezzin o che si presentano di notte sopra la terrazza di un alloggio in centro alla Medina, dopo una giornata intrisa di interazioni. Cercare di mettere in ordine i pezzi per vedere l’immagine finita di questo puzzle che è stata la mia esperienza di volontariato breve estivo è forse una delle cose più difficili, se non impossibili, da fare. Allora ci rinuncio e prendo un pezzo alla volta e cerco di ricordare quello che è stato.
Prendo il pezzo di A., un ragazzo dell’Annexe, una sede della Fondazione Zniber per i ragazzi che sono rimasti in orfanotrofio e non sono stati adottati. Lo osservo, mentre prende sotto la propria ala di protezione i suoi “fratelli” più piccoli, mentre giochiamo all’orologio tutti insieme e con un fare paterno spiega loro come si gioca e chiede ai compagni di chiamarli quando è il loro turno. Lo ascolto, mentre cerca di parlarmi in arabo e con quelle poche parole in francese che conosce. Ci guardiamo, mentre ascoltiamo un mix di canzoni marocchine e italiane, durante quella merenda preparata da lui e dai suoi compagni: i nostri occhi si incontrano, le nostre mani si imitano e in un attimo realizzo che stiamo ballando insieme e reciprocamente cerchiamo di imparare le parole della canzone in sottofondo per poterla cantare a squarciagola.
Passo poi al pezzo del puzzle di S. e dei 6 bimbi che sono stati adottati da delle famiglie francesi e che a fine mese lasceranno l’orfanotrofio. Sorrido ripensando che nella prima foto del passaporto di S. ci sia anche un pezzo di me, dietro a quel suo vestitino arancione, e mi ritrovo a fantasticare sul suo futuro pensando che questo sì che è l’inizio di un nuovo capitolo di vita e che i suoi primi 8 mesi lì a Meknes, forse sono solo stati una breve e amara prefazione di un libro che dovrà ancora essere scritto. Ripenso all’immensa fortuna che ha avuto nell’essere scelta e spero nel profondo del mio cuore che la stessa fortuna baci ogni singola testolina che ho accarezzato in quell’orfanotrofio.
Prendo in mano il pezzo del puzzle di D., quella bimba dal sorriso magico che ci accoglieva in corridoio mentre, camminando un po’ traballante, ci veniva a salutare. D. mi è entrata nel cuore dal primo giorno in cui l’ho conosciuta e mentirei se dicessi che ogni mattina era lei che veniva a cercare me: alla fine avevo sempre un occhio di riguardo per lei ed ero io che attendevo il suo abbraccio nel momento dei saluti. D. è speciale perché è determinata e perché è riuscita ad abbattere ogni barriera linguistica ed insieme anche la mia paura di non riuscire a relazionarmi con dei bambini che conoscono solo l’arabo. D. mi ha insegnato che bastano degli orecchini colorati per giocare e divertirsi, che il timore di non riuscire a fare qualcosa non deve mai prendere il sopravvento e che il gioco di sguardi, gesti e contatti è davvero sufficiente per capirsi e per stare con l’altro.
Guardo il pezzo del puzzle di K., una delle nurse che lavora all’orfanotrofio. È quello che fa angolo, quello che riconosci subito tra tutti i vari pezzi e che prendi per iniziare a fare la cornice. K. è proprio così: la riconosci subito per la sua estrema sensibilità, per la sua attenzione ai dettagli e per i modi che utilizza per relazionarsi con i bambini, ma soprattutto la riconosci per la forza e il coraggio di andare controcorrente, cambiando regole e modalità con il rischio di mettere in discussione quel sistema di valori e principi di una tradizione storica. E partendo da K. unisco i pezzi di quella che è stata la cornice di questa esperienza, ovvero il gruppo di volontari partiti in missione con Fra Pietro e le mie strette compagne di viaggio partite con OVCI, Alyssa, Gloria, Lucilla, Ilde e Silvia. Fanno da cornice, ma non perché marginali, ma perché hanno saputo raccogliere tutti i vari pezzi di questo immenso puzzle, mettendoli insieme e dando un senso a quello che abbiamo passato. I momenti di riflessione e confronto per fare il punto dei nostri vissuti, gli sguardi complici giocando con i bambini, gli abbracci nei momenti di sconforto e le risate a fine giornata per stemperare la tensione e la stanchezza. Il Marocco ci ha messo di fronte alle più svariate situazioni, talvolta piacevoli e talvolta faticose, se sono riuscita ad affrontarle con il giusto spirito è anche grazie al gruppo di persone con cui sono partita che è stata un’infallibile rete di supporto. Mi riprometto di fare tesoro di ogni momento che abbiamo condiviso e vissuto. Choukran, grazie.
Beatrice Locorotondo, volontaria