Terzo appuntamento con Carola e Matteo, partiti nel mese di giugno dopo aver conosciuto OVCI ed essere stati a Ponte Lambro per la formazione generale. Lui psicologo, Capo progetto del corso di Laurea in Sviluppo Umano; lei infermiera, referente tecnico del progetto CURE.

Come coppia hanno deciso di condividere il loro vissuto con conoscenti e amici, come anche con chiunque voglia entrare un po' più nel vivo di un'esperienza che tentano, attraverso le foto e le parole, di raccontare.

Vi lasciamo ad alcuni stralci di questo primo mese in Sud Sudan... Per leggere l'intero diario di bordo eccovi invece il link alla loro pagina: https://www.condividiamo.eu/wordpress/viaggi/sud-sudan/

 

13 agosto 

L’altro giorno Carola, mentre mi faceva male la schiena, mi raccontava che la prima vertebra che sorregge la testa si chiama Atlante e che l’affascinava molto questo nome. Effettivamente sono rimasto impressionato anche io da questo bel nome, sono andato a leggere un po' di mitologia e ci sono come sempre varie leggende, ma quella principale è di Atlante che sorregge il mondo, come castigo affidatogli da Zeus. Ed effettivamente a volte sono delle cose piccolissime a sorreggere il nostro mondo, fisicamente lo fa un osso piccolo piccolo, senza il quale crollerebbe tutto. Nella vita soggettiva lo fanno tante altre cose, spesso altrettanto minuscole, ma se le metti assieme riescono a reggere il mondo intero, perchè è proprio graziAtlante 1024x1024e a queste che tutto si muove. Mi basta pensare ad un abbraccio, a quando smarrisco il mio di mondo e basta davvero poco a rimetterlo assieme.

La settimana scorsa sono ritornato a insegnare, e devo dire mi appassiona molto, anche se in inglese è tutto più complicato, ma quando sono arrivato a parlare di quanto sia importante il senso nella riabilitazione, ecco li mi sono davvero soffermato sulla bellezza che il senso può portare. Perchè in fondo il nostro Atlante è spesso il senso, quello per cui facciamo quello che facciamo, che troppo spesso smarriamo e confondiamo con la quotidianità, ma come ricorda una celebre poesia: “essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare”. E da quando sono qua, in Africa, mi chiedo come possa reggersi il loro mondo, qua in Sud Sudan c’è la guerra da più di trentanni, e se non ci sono scontri ci sono la povertà e le malattie che distruggono famiglie e speranze. Eppure molte dei locali che ho conosciuto riescono a vivere con il sorriso, senza un domani, cercando di ringraziare per quello che c’è oggi.

I Sud Sudanesi hanno un'incredibile pazienza, perchè sono pronti ad affrontare ogni imprevisto. Probabilmente un occidentale impazzirebbe per l’ansia. In più si sorreggono, le famiglie sono molto numerose e visto che in pochi lavorano vivono spesso tutti vicini e si sostengono, ognuno aiuta l’altro come può, e se qualcuno ha dei problemi non viene allontanato, ma gli altri fanno di tutto per aiutarlo.

Forse è questo il loro Atlante, senza futuro quello che rimane sono i legami o forse è sempre cosi, dappertutto. In fondo l’origine della parola felicità deriva da generativo, e una vita generativa crea sempre legami, e viceversa.

 

20 agosto

Ferragosto è alle spalle, si ricomincia la routine lavorativa. Oggi ci hanno inviato 12 bambini da un campo profughi. Si il Sud Sudan nonostante sia poverissimo è pieno di campi profughi, alcuni riconosciuti, altri no. Questi 12 bambini con le rispettive tutrici (non sempre le madri sono ancora vive), ad una prima visione apparivano ben trattati e tenuti, i vestiti non erano distrutti, anzi curati e non mostravano alcun segno di malnutrizione. Mi avvicino. Ogni giorno decine di bambini attraversano il nostro centro, nel tentativo di affrontare i problemi più disparati, ma questi avevano qualcosa di diverso. Mi avvicino ancora, raggiungo il primo e gli chiedo il nome, ma non lo sa dire, mi guarda: occhi spenti e perplessi che mi attraversano. Allora glielo chiede la madre, ma ancora il bambino non emette un suono, tocca a lei rispondermi “Fadah”. Apro la mano e gliela porgo, in attesa di un contatto, mi avvicino lentamente e dall’altra parte anche Fadah avvicina la sua mano alla mia, posandola sopra la mia aperta. Sorrido intensamente. Una volta che il contatto è stabilito provo a giocare con lui, inizio con un po’ di solletico (di solito funziona), e a questo punto sorride anche lui. Un bianco con cui giocare, probabilmente è una cosa strana. Riprovo un paio di volte; Fadah alterna sorrisi e perplessità, non si muove, è solo il volto che esprime tutto, il resto del corpo rimane spento, impassibile ad ogni contatto. Al che la madre incomincia a parlarci e capisco solo Kavaja (uomo bianco), niente di più, e lui si distrae guardando lei. Torno a fargli il solletico, ma involontariamente lo colgo di sorpresa, si spaventa, gli occhi si spengono e il suo corpo perde l’appoggio con la realtà e crolla all’indietro inerme. Prontamente allungo la mano e lo afferro prima che colpisca con la testa per terra. Mi scopro spaventato da questo vuoto improvviso; la madre ride e questo mi sorprende ancora di più. Poi mi avvicino agli altri e hanno anch’essi guardi spenti, nessuno risponde ai miei saluti, gli unici che si dimostrano “vivi” sono quelli che si sono rifugiati nelle loro fantasie, che in Italia verrebbero diagnosticati come autistici o psicotici.

bambini e Sud Sudan 1024x1024È tardi, e se ne vanno. Torneranno domani. Io con il cuore gonfio e i pensieri pesanti mi dirigo all’università. Quanto dolore ingiustificato circonda incolpevoli vite. Ancora immerso nei miei pensieri vedo passare per i corridoi dell’università una bambina, minuscola, avrà 4 anni e ne dimostra comunque di meno. Capelli crespi, faccia vivace, corre in tutte le direzioni. Un abisso rispetto ai bambini che ho visto solo poco prima. Si ferma di fronte a me, mi guarda. Mi avvicino, le chiedo in arabo come si chiamo e intanto mi presento; lei sussurra qualcosa d’incomprensibile, poi mi guarda e dice “Come”, si gira e mi fa strada. Io non posso far altro che seguirla, mentre lei controlla che io esegua il suo ordine di andare con lei. Mi porta in una stanza dove la mamma studiava per un esame, mi guarda e ride. Chiedo con lei come si chiami e la madre con uno splendido inglese lo chiede alla bambina, che questa volta risponde a pieni polmoni “Sasha”. Che stupido, ho dato per scontato che parlasse solo arabo. Poi Sasha prosegue: “sit down here”. Indica la sedia e mi guarda. Mi siedo e aspetto. Poi tiro fuori un quaderno e una penna e lei mi sorride e incomincia a disegnare, sorridente e felice, viva. Rimaniamo un po’ a giocare e poi sempre con il cuore gonfio e i pensieri pesanti mi allontano. 

 

 

10 settembre

Si riparte, questa volta per le vacanze, ma è la prima volta che ci allontaniamo dalla nostra nuova casa a Juba.

Ogni partenza è un momento di bilanci, interrompi il cammino, ti fermi e guardi tutte le impronte che hai lasciato nel tuo percorso. Così, dopo aver fatto tutti i controlli, fra sudore e caos, ci ritroviamo a riflettere su tutto quello che abbiamo affrontato fino ad ora.

Vacanze 1024x1024Seduti in aeroporto ad Addis Ababa ripenso alla felicità di intraprendere questa nuova esperienza, di rincorrere un sogno. Ripenso alle difficoltà che la cooperazione porta con sé, l’infinita burocrazia che rallenta e giustamente controlla; le giornate brutte; i volti dei bambini che ogni giorno si affacciano al nostro centro in cerca di un aiuto, di qualcuno che gli aiuti, alle lacrime di fronte alle continue sofferenze di chi cerchiamo di aiutare. Ripenso alle serate assieme, ai volti felici, alle chiacchiere, alla lotta impari contro le zanzare, alle uscite, agli scarafaggi, alla pizza fatta in casa, al tentativo di sentirsi a casa e la certezza di avere qualcuno con cui condividere questa casa.

Prima di andare via abbiamo salutato Betty, la moglie di Samuel, e quando le abbiamo detto che andavamo via le si è spento il sorriso sulle labbra, per un attimo, poi Anna ha aggiunto: “ma tornano per tre settimane, vanno in vacanza”. Queste parole le hanno fatto rinascere il sorriso, che ha contagiato anche me e riempito di felicità questa breve parentesi.

 

Carola Esposito e Matteo Ghini, collaboratori a Juba

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