Pensare che poco più di un mese fa mi trovavo seduta in un bamber dalla sit al shy (ndr: sgabelli tipici dei locali sudanesi), sorseggiando un jabana con lo zenzero. Tra una chiacchiera, mille sorrisi e quel profumo di spezie, che tanto mi mancano. Così mi piace ricordare il Sudan, almeno ci provo. Perché quando i pensieri prendono il sopravvento, affiorano nitidi i ricordi di quell’ultima settimana. Quella sensazione di inutilità mi travolge. L’imprevedibilità e la fragilità si fanno così forti che a volte mi sembra ancora di essere nel salotto del compound di Khartoum e di sentire le voci dei miei colleghi in sottofondo che pensano a nuove strategie per razionare l’acqua. Chissà ancora per quanto.
Il rientro in Italia, è stato fuori da ogni mia aspettativa. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Anche per questo ho accettato, senza nemmeno pensarci, il ricollocamento in Marocco. Una settimana dopo, infatti, ero già al gate, in attesa di salire sull’aereo. Intorno a me c’erano uomini che indossavano il djellaba, donne con i capelli coperti dal velo, henne su mani e piedi, profumi intensi. Quella gentilezza e quello sguardo sempre rivolto all’altro. Finalmente mi sentivo a casa, di nuovo.
L’accoglienza all’aeroporto dei miei compagni di avventura e il primo canto del Muezzin, sono stati una sicurezza: sono nel posto giusto.
Dal terrazzo del nostro appartamento a Rabat balzano subito agli occhi i palazzi alti e moderni, le strade asfaltate prive di buche, gli alberi e le tante zone verdi... in lontananza l’Oceano. L’aria è pulita, o almeno priva di sabbia e il sole non sembra scaldare tanto. I bar hanno preso il posto delle “signore del tè”, le macchine quello dei raksha e dei carri. È così diversa da Omdurman, ma così vivace.
La prima passeggiata tra le vie della capitale mi ha fatta sentire libera e serena come non lo ero da tempo. Il primo tajine, mangiato rigorosamente con il pane, senza posate, e i mille colori della Medina. In effetti in alcune cose si assomigliano.
Così è ricominciata mia avventura. Inizio a conoscere lo staff locale, tra un bonjour e qualche parola in arabo cerco invano di fare conversazione. Per fortuna il linguaggio del corpo è universale, perché sarà il mio alleato in queste settimane. Non c’è tempo da perdere: manca poco più di un mese al termine del mio servizio, le cose che vorrei fare sono tante, forse troppe. Per ora mi concentro nel vivere appieno ogni momento, con la speranza di lasciare un piccolo segno.
Martina Marsonet, Casco Bianco SCU con OVCI in Marocco